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Feb 17


Avvalersi per almeno un giorno dei vantaggi del lavoro a distanza grazie alle nuove tecnologie. Toccare con mano i benefici dello smart working. Otto ore per vedere l’effetto che fa e, contemporaneamente, affrontare due temi di grande attualità: la conciliazione vita-lavoro e la mobilità sostenibile. Questi gli obiettivi della “Giornata del Lavoro Agile”.
L’iniziativa è stata riproposta per il terzo anno consecutivo dal Comune di Milano confortato dai dati delle precedenti edizioni. Numeri dai quali è emerso che i dipendenti delle circa 150 realtà aderenti hanno potuto risparmiare approssimativamente due ore in un giorno, sottratte agli spostamenti. Invece di passarle in macchina o sui mezzi di trasporto, sono state reinvestite per sé, per la propria famiglia e per il tempo libero. E anche in lavoro aggiuntivo, fatto in maniera più personalizzata e rispettando i propri tempi. In questo modo, inoltre, si è evitato di percorrere circa 150mila Km nel 2014 e circa 170mila Km nel 2015, il che vuol dire meno mezzi a motore, con notevoli vantaggi anche per l’ambiente.
Un evento che ormai ha contagiato tutta l’Italia e a cui la Città aderisce da sempre con entusiasmo. Quest’anno però l’amministrazione torinese, oltre a partecipare alla consueta sperimentazione, ha anche organizzato un convegno “Telelavoro e Smart Working nella Pubblica Amministrazione” volto principalmente ad approfondire le innovazioni introdotte dalla riforma Madia, ma non solo.
Il workshop, che si è svolto mercoledì 17 febbraio nella sala Bobbio dell’ex Curia Maxima, è stato anche l’occasione per valutare progetti, esperimenti e best practice; analizzare i dati presentati dall’Osservatorio Smart Working di Milano; collegarsi in video conferenza con Amsterdam per conoscere la realtà olandese; valutare l’esperienza del Comune di Torino.
A tal proposito sono risultate interessanti le conclusioni cui è giunto Claudio Marciano dell’Università La Sapienza di Roma. Incaricato dal Comune di Torino di svolgere un approfondimento sui suoi telelavoratori Marciano, dopo averli intervistati uno a uno, ha segnalato due fenomeni.
Da un lato quello che lui definisce “Effetto Stachanov”, ovvero la tendenza a lavorare più del dovuto quasi per dimostrare di meritarsi la maggiore autonomia. Non è un caso se molti telelavoratori hanno scelto autonomamente di tenere diari in cui annotare le ore di lavoro e le attività svolte. Questo effetto, secondo il ricercatore, è determinato dall’autopercezione di una maggior produttività; dal timore del giudizio di colleghi e responsabili; dalla difficoltà di uscire da un sistema interiorizzato; dalla consapevolezza di poter svolgere le proprie mansioni in tempi inferiori. Dall’altro, invece, si ha “l’Effetto Mulino Bianco”, ovvero il rischio che lavorando da casa si venga risucchiati dal doppio lavoro: quello per l’amministrazione e quello per la cura. Effetto definito da più fattori quali: la consapevolezza di poter investire di più nella cura della famiglia, le maggiori aspettative da parte dei familiari, l’attesa inferiore nei confronti della carriera e, infine, la considerazione del telelavoro come risorsa provvisoria.
Un giornata di lavoro intensa che si è conclusa con la presentazione da parte di alcuni telelavoratori municipali delle migliori proposte per rendere il lavoro più smart.

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Mar 21


La cornice aulica della sala del Senato del Museo d’arte antica ha ospitato stamattina la presentazione di un focus sui risultati poco lusinghieri dell’integrazione degli immigrati extra europei dalla popolazione dei 28 Stati dell’Unione e, in particolare, in Italia.
All’antropologa Laura di Pasquale è toccato snocciolare dati reali e formulare considerazioni crude sulla dinamica delle disuguaglianze di cui sono vittime gli stranieri nella nostra penisola, Paese che per diverse epoche – nel Novecento e nel XX secolo, è stata terra d’emigranti. E che oggi è uno Stato tra i più avanzati, ma la cultura dell’integrazione è al quanto arretrata se si considera che due italiani su tre sono convinti che a eseguire i lavori più faticosi, quelli che non accetterebbero più di svolgere, tocchi principalmente a chi ha natali diversi. In Italia infatti il 34% degli stranieri immigrati è impiegato in occupazioni non specializzate e dequalificate. Una percentuale molto elevata se paragonata all’7,8% dei nostri connazionali nelle pari condizioni.
Il rapporto ombra della Rete Europea Contro il Razzismo (ENAR) 2013 ha come focus il tema del lavoro e le discriminazioni subite da minoranze etniche e religiose e immigrati nell’accesso al mercato del lavoro. Diversi i gruppi identificati come più vulnerabili alle discriminazioni sul lavoro: fra essi gli immigrati da Paesi extra-UE, i rom, i musulmani, le persone di origine africana, le donne di origine straniera o legate a una minoranza.
La crisi finanziaria e economica e la mancanza di investimenti sociali hanno peggiorato il gap occupazionale tra immigrati e minoranze etnico-religiose e la maggioranza della popolazione:
“Celebrare a Palazzo Madama la Giornata contro il razzismo voluta dall’Onu è un atto di riguardo della comunità internazionale e la presenza di Martin Schulz, presidente dell’assemblea di Bruxelles, a pochi mesi dal rinnovo dei gruppi parlamentari chiamati a guidare l’Unione Europea, è un merito”. Con queste parole Luciano Scagliotti, presidente del Centro d’iniziativa per l’Europa, ovvero il Cie Piemonte, l’associazione fondata sotto la Mole dal compianto Rinaldo Bontempi – uno dei più attivi vicepresidente della Commissione – , ha dato il benvenuto al ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina e all’ex ministro Cécile Kyenge e alla nutrita pattuglia di parlamentari nazionali ed europei intervenuti alla presentazione del rapporto sul razzismo.
Torino è per antonomasia la città italiana dell’accoglienza, dove oltre il 17 per cento della popolazione ha origini straniere e gran parte degli abitanti appartengono a famiglie provenienti da tutte le parti d’Italia, richiamate dalla disponibilità del lavoro in fabbrica.
I dati statistici sulla discriminazione ci inducono ad abbandonare il paradigma di Lampedusa della emergenza e a ragionare, in modo costruttivo e pragmatico, di adeguate politiche di integrazione nella scuola, nel lavoro e nei servizi pubblici per una società ormai definitivamente multietnica – ha sottolineato Marco De Giorgi direttore di Unar, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali “.
Per Martin Shulz, intervistato dal direttore della Stampa, Mario Calabresi l’Europa ha bisogno di una “vera e propria legge sull’immigrazione, tutti i Paesi destinatari di immigrazione ce l’hanno, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Argentina all’Australia. E dobbiamo abbandonare – ha aggiunto – la mentalità per cui il desiderio di voler venire in Europa sia considerato un crimine. Questo significa fissare regole, dare una normativa alle richieste e la ripartizione delle quote fra i Paesi europei. Serve un accordo sull’immigrazione e io penso che in un’Europa di 28 Paesi questo sia possibile”.
Il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina ha spiegato che l’Italia possa diventare protagonista di una stagione dove il tema della cittadinanza e dell’integrazione diventino gli assi portanti di una nuova idea di Europa”. Tuttavia per Martina è necessario “non abbassare mai la guardia, costruire una cittadinanza, che vuol dire fare i conti fino in fondo con le derive xenofobe e razziste. Quando discutiamo di crisi economia e sociale, di cittadinanza, di lotta al razzismo, di integrazione ci stiamo ponendo un unico vero problema, che è quello di realizzare comunità solidali, cittadinanza piena. Da questo punto di vista credo che l’Italia possa fare molto, anche una battaglia a viso aperto per snidare anche nelle istituzioni derive che spesso ci sono e che non è possibile tollerare”.
“Non era Cecile Kyenge che attaccavano, quando ero ministro per l’integrazione – ha spiegato nel corso di un intervento dai toni accesi, la parlamentare pd – ma anche voi, i vostri figli, tutti noi e l’idea del cambiamento culturale. Perché se si distrugge l’idea del cambiamento culturale siamo tutti persi”.
“Penso che la nostra cultura – ha chiosato Schulz – sia quella di una civiltà aperta. Gli immigrati vogliono venire in Europa proprio per la nostra cultura, perché libertà individuali e diritti ne sono una parte integrante. L’uguaglianza fra uomo e donna, la libertà di stampa, la libertà di voto sono cose che in altre parti del mondo possono solo sognare. Io sono orgoglioso di questa cultura – ha concluso – e capisco che altri la vogliano condividere”.

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